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La storia e la fine del comunismo in Italia. Insieme a quella dei partiti

Di Italo Francesco Baldo Venerdi 29 Giugno 2018 alle 19:25 | 0 commenti

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La politica nello Stato Italiano a partire dalla fondazione del Partito Socialista Italiano nel 1892 è stata caratterizzata da schieramenti tra loro opposti ed ognuno con una visione dello Stato antitetica. Si può senza dubbio affermare che ognuno voleva uno Stato a propria immagine e somiglianza, non vi era e in parte non vi è neppure oggi quella autentica visione politica che vede tutti uniti nella affermazione dello Stato e del modo di gestire la cosa pubblica. Facciamo un po' di storia partendo dal successo che ebbe il Partito Socialdemocratico russo; nato nel 1898 nel 1903 si divise, caratteristica dei partiti di sinistra di filiazione marxista, in due fazioni: menscevica e bolscevica.

La seconda, guidata da V. U. Lenin (ascolta), L. Trockij (ascolta) e J. Stalin (ascolta), dopo la rivoluzione del 1917, si trasformò in PCUS, cioè Partito Comunista dell'Unione Sovietica, modello fino al 1992 di tutti i partiti comunisti del mondo, compreso quello cinese, ancor oggi domina il paese asiatico ed è strutturata nella forma del centralismo democratico.

In Italia nacque nel 1921 il Partito Comunista d'Italia, divenuto dopo il 1943 Partito Comunista Italiano. Accanto a questo partito in Italia divennero operativi, oltre al Partito Socialista, quello Repubblicano nato nel 1895, quello Popolare sorto nel 1919 e il Partito Nazionale Fascista nel 1921, che sostituì i Fasci Italiani di Combattimento e si unì nel 1923 con l'Associazione Nazionalista Italiana. Ognuno, come si diceva, portava una visione dello Stato; vinse quella del Partito Nazionale Fascista e di sé improntò lo Stato Italiano, pur conservando la forma monarchica, ma gli altri avrebbero di certo fatto lo stesso.

Infatti, non è nemmeno immaginabile che se avesse vinto il Partito Comunista d'Italia, l'Itala non sarebbe stata "comunista" e così per gli altri. Gli aderenti ai singoli partiti erano essi stessi portatori di una visione dello Stato coerente con i fondamenti della fazione di appartenenza e con orgoglio si dichiaravano di volta in volta: "popolari", "comunisti", "fascisti" ecc. Non era uno schieramento politico, ma una visione del mondo, chi era popolare si richiamava al cristianesimo, chi era repubblicano a Giuseppe Mazzini e al senso dei doveri, il comunista si dichiarava ateo e mangiapreti oltre che sterminatore della borghesia.
La fine del secondo conflitto mondiale non fece cambiare pelle, ma solo nome ad alcuni partiti, che a fatica raggiunsero il compromesso che si estrinsecò nella Costituzione della Repubblica Italiana, visto che tutti, più o meno velatamente, inseguivano il sogno di fare dell'Italia il paese che realizzava le loro idee e questo a scapito dello Stato. Certo non si adottò in modo palese da parte dei partiti di origine marxista e affiliati all'Unione Sovietica la prassi rivoluzionaria. Ciò anche perché l'erede del partito Popolare, la Democrazia Cristiana, aveva la maggioranza e occhieggiava, fin da Alcide De Gasperi, Giuseppe Dossetti e perfino il vicentino Mariano Rumor, con la sinistra.

Il primo cambiamento avvenne dopo il 1968, quando la sinistra marxista prese le redini del dibattito politico e negli anni di piombo (Brigate Rosse, Proletari in divisa, Potere Operaio Armato ecc.) sosteneva la possibilità di una rivoluzione comunista. Il Partito comunista ufficialmente non ne fu un diretto sostenitore, ma tra i suoi iscritti la voglia di cambiare tutto era ben chiara, soprattutto a partire dal 1974 quando apparve chiaro il fallimento politico della Democrazia Cristiana con la perdita nel referendum sul divorzio. I "gruppi e gruppetti" proponevano la via rivoluzionaria inneggiando ai tupamaros, a Ernesto Che Guevara, a Camillo Torres, trovando anche sponda nel cattolicesimo, tanto che Paolo VI dovette ribadire la scomunica per il comunismo.
L'allora segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer prese dal 1973 un'altra via, quella dell'accordo con la Democrazia cristiana per sconfiggere le forze fasciste e avviare il distacco dall'Unione Sovietica. In realtà un distacco più di nome che di fatto che non si realizzò perché Aldo Moro fu rapito e assassinato, non si sa veramente per mandato di chi!
Berlinguer nella sua solitudine non fece che appoggiarsi al residuo della Democrazia Cristiana, incapace di proposta politica, ma ben attaccata alle poltrone. Ne approfittò Bettino Craxi inaugurando, dopo la brevissima stagione di Giovanni Spadolini repubblicano, una conduzione del potere che distribuiva denaro pubblico. L'aumento del debito si deve a quella stagione.
Ma il mondo vedeva la fine dell'URSS e la fine in Italia dei partiti ridotti ormai solo ad occupare poltrone con vantaggio personale e certo abbandono della visione politiche.
Solo il Partito comunista con Achille Occhetto cercò di riciclarsi nella novità, ma conservò sempre la sua visione di base che ebbe l'appoggio anche di esponenti della Democrazia Cristiana che in quel partito si inabissarono, tanto da non essere nemmeno più ricordati oggi come "cattolici".
Finiti i partiti, tranne quello "comunista" riciclatosi, giunse per esso la stagione della conclusione della "lunga marcia verso il potere". Era ad un passo, tutto era stato predisposto, ma, come insegna Machiavelli, le vicende umane sono rette al 50% dalla fortuna e questa fu la sfortuna dei "compagni". Si chiamò e si chiama Silvio Berlusconi che intercettò la lega di Umberto Bossi e la sua prospettiva di trasformare lo Stato Italiano in almeno tre altri Stati; si sa che fine fece quel progetto.
Intanto il Partito di Occhetto con il palese aiuto del Presidente della Repubblica e l'aiuto delle forze ex-democristiane riuscì a riprendere con Romano Prodi il potere (con l'Ulivo), ma ben presto la sinistra lo defenestrò e Massimo D'Alema, forte inizialmente dell'appoggio del Partito della Rifondazione comunista tenne per poco il potere.

Dopo la sconfitta nel 2002 ecco di nuovo la sinistra riciclarsi con Pierluigi Bersani di filiazione dalemiana e nuovamente con Prodi e soprattutto il presidente Giorgio Napolitano che, mai dimentico del progetto togliattiano, cercò sempre di favorire i suoi e in ogni modo. La stagione non ebbe successo, complice anche la crisi economica e soprattutto l'incapacità politica dei suoi esponenti Enrico Letta e Matteo Renzi; il sostituto del fiorentino Renzi, Paolo Gentiloni, si fece in realtà guidare dagli stati d'oltralpe, come aveva predisposto Mario Monti, che ottenne come premio a priori da Napolitano, e che pagheremo per molto tempo ancora, il laticlavio a vita.
La fine della prospettiva di Renzi, ufficialmente determinata dal referendum sulla riforma della Costituzione dello Stato Italiano, fu la negazione del suo modus operandi e di coloro che lo avevano predisposto.
La sconfitta alle elezioni del 4 marzo 2018, segna la fine del Partito Democratico che aveva tentato di uscire dal gravame antico, quello del comunismo. Resta ed è ben vivo quello che vorrebbe il ritorno al Partito Comunista Italiano, di Togliatti come ben chiaramente si è espresso dallo scalatore Mauro Corona in una trasmissione televisiva condotta da Bianca Berlinguer, che ha suscitato il fantasma della nostalgia che pervade sempre coloro che non si rendono condotto che il loro tempo, quello del comunismo e non solo, è finito.
Non ci resta che il passato e con il passato conquistare il futuro. Purtroppo ciò sarà ancor di più la fine, perché quel comunismo che viene richiamato è fermo alle analisi del primissimo Novecento e dopo Antonio Gramsci non è andati oltre, anzi proprio la riflessione gramsciana, non certo seguita da nessun segretario, in primis Palmiro Togliatti, è essa stessa "passato". In nessuna parte del mondo esiste il mondo che Gramsci analizzò, soprattutto in Italia, ma un populismo comunista, quello che piaceva anche a Lenin, fa sempre comodo, magari per opporlo a quello che si crede sia di altri partiti.
Forse per gli eredi di K. Marx, F. Engels, V.U. Lenin, J. Stalin, P. Togliatti, E. Berlinguer, G. Napolitano ecc. è tempo di andare oltre il 1848, oltre il 1905, oltre il 1917, oltre il 1968, oltre il 1992 e ciò vale non solo per il partito democratico, ma per tutti coloro che credono che lo Stato debba essere fatto a propria immagine e somiglianza. Uscire dal modello dei partiti non è e non sarà facile, ma è la vera urgenza di questo nostro tempo, se l'Italia nella dimensione europea vorrà avere ancora un significato.


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