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Grande Guerra, la coscienza tra la Caldiera e l’Ortigara

Di Giuseppe Di Maio Venerdi 3 Agosto 2018 alle 12:10 | 0 commenti

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Di mattino è fresco, quasi freddo, ma l’aria è umida e la strada piena di pozze d’acqua. Forse sarebbe stato meglio andare a funghi, come quella coppia avanti a me che ostenta ceste stracolme di porcini. Quest’anno l’annata è certamente straordinaria: tutte le spore dell’altipiano hanno gemmato sotto l’insistenza di questi nubifragi. “Scusi, si va bene di qua per il museo?” Quale museo? Ah, di certo starà intendendo quello della guerra. “Sì, va bene, ma è all’aperto, lo sa?” Un motociclista da sotto il casco mi ha chiesto un’informazione. 

Lui sì che è furbo, ci arriva proprio sotto, invece io la prendo da Campomuletto, e andata e ritorno dall’Ortigara saranno più di 25 km.

A mezzogiorno scavalco la catena che chiude idealmente la stradina che dal piazzale sale alla chiesetta del Lozze. I cartelli mi indicano che siamo entrati nel museo, nella prima linea del teatro della battaglia dell’Ortigara. Il percorso che porta a monte Lozze è uno dei pochi con una certa pendenza, e passa in mezzo a un folto bosco di pini. Immagino i soldati che portavano le mitragliatrici a dorso di mulo e la perentorietà degli ordini dei loro ufficiali. I generali di questa guerra per lo più erano settentrionali, anzi, del nord-ovest, come se il vecchio esercito sardo fosse interamente sopravvissuto alla conquista italiana, alla battaglia del Garigliano, a quella di Custoza, alla farsa dei plebisciti. E l’ottusità di certi ceffi baffuti capaci di mandare a morte sicura intere divisioni di italiani, non poteva vincere la guerra. Difatti alla fine chiamarono un napoletano per portarla a termine, con una certa umanità e, vittoriosamente.

Sarà per lo sforzo, ma parlare qui di vittoria è da dementi, l’effetto di un colpo di sole su questo sentiero che adesso si è fatto più stretto, conteso dalle braccia spinose del pino mugo che tinge con un po’ di verde questa pietraia. Durante il conflitto alberi ce n’erano pochi, e quei pochi erano spariti sotto il fuoco delle cannonate. Si dice che i pini e i larici siano stati piantati dopo, quindi hanno solo cento anni, come fiori sulle tombe dei soldati. Lo so, io qui ci vengo per far compagnia a mio nonno, alla sua paura di non tornare a casa. Non era più giovanissimo, aveva già dei figli, ma mio padre non era ancora nato. Veramente non so nemmeno esattamente dove abbia combattuto, ma: meno male che c’era Armando Diaz, se avessimo avuto solo i Mambretti, capaci di collezionare un’incredibile serie di disastri, forse non sarei qui a scrivere.

Guardare da quassù la Valsugana dà un’incredibile senso di soddisfazione. Tutto pare più chiaro. S’erano fatti fregare la cima, e ad un eccezionale testa di tamburo venne in mente di far morire migliaia di uomini in un vallone senza difese. L’attacco, che dalle postazioni della Caldiera aveva intenzione di prendere il cocuzzolo di fronte, in una posizione più favorevole per proteggere l’esercito nella pianura e nella valle, si spense prima di cominciare la scalata. Ai nostri fu sparato in faccia da un nemico che “usciva dalle caverne”, si disse. Capì persino Cadorna la difficoltà dell’impresa, altro uccisore di connazionali: uno che ordinò agli ufficiali di stare alle spalle degli attaccanti per sparare addosso a chiunque fosse tornato indietro. Il monte fu preso e poi subito perduto. Tutto come prima, solo un’orribile conta di morti; un’inutile carneficina.

C’era un generale che voleva baciare i suoi soldati uno a uno, sulla bocca, così testimoniava una lapide letta in uno dei sacrari della grande guerra. Un generale era di nobile famiglia, un altro era conte, e magari sognavano di essere conquistatori, dei Prinz Eugen sul destriero. La menzogna, la sua retorica, sono gli espedienti del potere per asservire. Quale interesse avevano le popolazioni che furono annesse all’Italia a stare con i Savoia o con gli Asburgo? Un incredibile numero di morti che non potrebbe giustificare nessun guadagno. Eppure, qualcuno volle quella guerra e qualcuno ne guadagnò, e non fu nessuno di coloro che la combatterono. Dopo la discesa dalla madonnina del Lozze, mi attardo sul ciglio del piazzale. Incassata nel cemento c’è una piccola scritta di Giovanni Pieropan, storico vicentino della Prima guerra “…queste sacre cime ricordino quanto ardua sia la conquista della pace”. Ecco, mi arrischio a dissentire… Ciò che ci devono ricordare è quanto deve costare all’uomo il conseguimento della coscienza, non della pace, giacché quella è frutto semmai della giustizia.

Con la fine della guerra, almeno da questa parte del mondo, i conflitti e tutta la politica, smisero di essere una faccenda per pochi. Dal sangue di tutta quella gente nacque il suffragio universale, che per quanto ormai abbia esaurito il suo compito storico, è stato uno dei primi veri contributi alla storia della democrazia. Ma ancora oggi c’è chi mente e ci obbliga in un’assurda trincea a spararci l’un l’altro, nascondendoci che il vero obiettivo, la cima di monte Profitto, non ha nulla a che vedere con i nostri sforzi. E’ tempo di girare il fucile e capire, è tempo di sparare all’ufficiale, al servo che si nasconde dietro la cruda realtà della vita, dietro l’uccisione dei sogni, l’ineluttabilità di un ordine e la devozione allo spirito di servizio.

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